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50 km/h

Ieri pomeriggio, pedalando sulla trafficata provinciale che mi porta a casa, riflettevo sul significato del limite standard dei 50 km/h imposto a tutti i veicoli a motore che transitano in un centro abitato.
Test di sicurezza stradale hanno stabilito che l‘urto frontale di un’auto che viaggia a 50 km/h corrisponde a una caduta libera da un’altezza di 9 metri: questo significa che tutti gli automobilisti si muovono (almeno!) a una velocità tale da potersi uccidere, peraltro autorizzati dal codice della strada. Senza contare che in caso di incidente stradale, sono gli utenti meno protetti – motociclisti, ciclisti, pedoni – a correre i rischi maggiori.
Secondo il prof. Hermann Knoflacher dell’università di Vienna l’automobilista è un “assassino in buona fede“, ovvero “l’auto sposta le persone in una dimensione spazio-temporale di irresponsabilità che non possono comprendere né gestire” .
Io aggiungo: nemmeno a 50 km/h, poiché in aree urbane a elevata densità abitativa, è impensabile per un automobilista riuscire ad essere davvero prudente se non andando al massimo a 20-30 km/h. Questo sta avvenendo parzialmente nelle nostre città, con la creazione delle cosiddette “zone 30” che, grazie anche a sopraelevazioni e alla segnaletica dedicata, cercano di convincere gli automobilisti a transitare a velocità ridotta per evitare di travolgere pedoni e ciclisti.
Ma l’applicazione del codice della strada risulta un’impresa ardua: penso ad esempio al diritto di precedenza dei pedoni in procinto di attraversare le strisce pedonali (strisce che, anche se disegnate enormi, colorate o luminose, fanno ben poco da sole per fare sì che le auto permettano l’attraversamento della strada).
Le nostre strade, baluardo inossidabile della auto-crazia, divengono lo scenario dei più atroci incidenti stradali – le cronache locali sono piene notizie di questo tipo – senza che la collettività comprenda che il nocciolo del problema non è (solo) “la velocità”, bensì la capacità dell’automobilista di concepire che nella strada si spostano altri automobilisti, ciclisti e pedoni, e soprattutto che le strade vengono inserite in un contesto urbano sempre imprevedibile. Il codice della strada è in vigore per permettere ai diversi soggetti di interagire senza che uno prevarichi sull’altro, ma per molti automobilisti appare ridicola l’interazione tra una scatola di metallo che scivola e quella di una bici che cigola; l’automobilista, alienato (perché inscatolato), invalido (il suo punto di vista è assai ridotto) e stressato (dal traffico) è poi vittima del mito della velocità, che lo vede frustrato quando non può percorrere le strade a una velocità di almeno 80-100 km/h. Ma il limite dei 50 km/h rimane tuttavia un parametro ingannevole, rigido, perché non prende in considerazione le variabili di una strada urbana.
Chi va in bicicletta sa che 50 km/h sono una velocità già considerevole; la velocità delle biciclette in città (in media 15-20 km/h) apppare quindi un ottimo compromesso tra il bisogno di muoversi in fretta e la necessità di farlo in sicurezza.
Perché quindi noi ciclisti dobbiamo assistere alle “gare di velocità” degli auto-sauri, che vogliono imporci la loro fretta, la loro velocità e la loro imprudenza, che può correre anche sul filo del fuorviante 50 km/h?

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