Il maestro del lequilibrio di Emilio Rigatti
La cosa misteriosa da conquistare e che mi avrebbe dischiuso le porte della libertà aveva un nome difficile: lequilibrio. L’Atala blu notte ce l’aveva sparso tra il metallo, la catena e la gomma delle ruote, ma per evocarlo e catturarlo ci voleva un rituale di iniziazione. Dopo l’acquisto dal rivenditore de Grassi, a Fiumicello, bisognava che qualcuno me lo tirasse fuori. “Senza lequilibrio non si va” mi dicevano tutti, e io ardevo dal desiderio di conquistarlo, di diventare io stesso lequilibrio e velocità. Danilo faceva il garzone di bottega da mio zio Diego, che aveva una drogheria e ferramenta in paese ed era un maestro di lequilibrio, tanto che andava in bici senza mani. Davanti alla bottega c’era un piazzale ombreggiato da tigli che era il cortile della bella scuola elementare, dove un giorno avrei dovuto andare anch’io. Lì, sul piazzale della scuola, Danilo mi trasmise lequilibrio che, dopo numerose prove, mi arrivò addosso in un attimo, come un’improvvisa pentecoste ciclistica, uno spirito santo della libertà di movimento che, trasmettendosi dal telaio a tutta la mia persona, mi fece fare un volo di molte decine di metri.
[Continua a leggere il seguito del racconto su Andamento lento il Blog di Ediciclo: rientra in una serie di scritti che hanno per tema “La mia prima bicicletta“]
Bellissimo questo racconto.
Automaticamente sono andato alla mia esperienza, chi non l’ha ?
Ho pensato che se ne raccogliessimo diverse, forse con tante memorie, si potrebbe costruire un futuro, un futuro ricco di speranze, di realtà migliori di quelle attuali.
Quindi ecco, lancio il sasso e non nascondo la mano.
La prima volta, quando mi “staccai” … e poi !!
Laggiù, in fondo, in fondo ai ricordi, ne ho uno che non rispolvero da tempo.
Quando imparai cosa fosse l’equilibrio, quello fisico, l’altro lo cerco sempre.
Capacità ambita staccarsi da terra grazie alla bici che però intimoriva parecchio.
Ero a casa dalla nonna, per tanto tempo l’abbiamo chiamata così, infatti il nonno non c’era più.
Di lui mi rimanevano due cose, un orologio, l’ultimo che comprò, da polso, dopo che l’orologiaio gli disse che l’altro non credeva proprio di riuscire a ripararglielo e la sua bici.
Il primo me lo avrebbero dato solo quando fossi diventato più grande, avevano timori fondati che non fosse sufficientemente tutelato dagli incidenti.
La bici invece era sempre disponibile. Era alta, l’usavano, ogni tanto, gli zii.
La sfida era sempre aperta, data la facilità di reperimento del mezzo.
E cominciai a provarmici.
Il manubrio era enorme, con le manopole piegate ad angolo retto rispetto al tratto lungo, i freni, due aste metalliche, il colore, quel grigio-verde che sapeva di militare e poi i pedali.
Quattro corpi ognuno, collegati fra loro da un disegno più sottile.
La rampa dei garage era il punto critico, non si poteva sbagliare, la discesa era anche ‘mossa’ da una curva sulla destra che permetteva d’entrare nelle autorimesse, se si stringeva la curva subito, s’acquistava velocità, sfruttabile riaprendola repentinamente, prima d’incontrare il muro o il rubinetto che sporgeva dallo stesso.
Altrimenti, un altro passaggio difficile era il marciapiedi, a fianco gli correva la cunetta, profonda anche venti centimetri, conduceva “di dietro”, cioè sul retro della casa, dove si poteva pedalare un pochino di più. Si poteva raggiungere il pollaio, oltre l’orto, nonostante la presenza della Iula, l’esuberante femmina di pastore tedesco, posta a guardia dei polli.
Ma quando fu che mi “staccai” ?
In realtà non mi staccai da nessuno, feci da solo.
Sulla bici potevo stare solo in piedi sui pedali, infatti se fossi stato seduto, non sarei arrivato ai pedali in modo continuativo.
Presi il manubrio e salendo in piedi sul pedale più alto mi lanciai, badando a tenere il manubrio dritto, naturalmente … caddi diverse volte, il mio vantaggio però era che con le ruote così alte, facevo presto a rimanere in equilibrio, trovatolo, non lo persi più.
Subito mi trovai a pensare che il giardino della nonna fosse troppo piccolo per me, mi aspettava altro, pensavo, avevo già otto anni, ero diventato un altro, ero diventato libero.
Tornato a casa, tornato a casa mia, abitavo in via Dagnini, fuori Santo Stefano, cominciai la “solfa” con mia madre, volevo una bici.
Le strade vicino a casa dilagavano nei campi, dove ogni tanto, sorgeva un cantiere per la costruzione di una casa.
Quando bisognava andare in centro, dovevamo raggiungere via Laura Bassi, per arrivare al capolinea dell’autobus. Era un altro mondo, le auto le vedevamo passare in un polverone ma di parcheggiate, pochissime.
Quello che colorava il circondario nei pomeriggi, erano i gruppi di ragazzini in bicicletta, ci cercavamo, giocavamo, col pallone nei campetti, della parrocchia, dentro alla Lunetta Gamberini o nei cortili più grandi, con campi realizzati da noi, all’istante.
E le bici erano sempre là, con noi, più come mezo di trasporto che come gioco.
Alla fine ottenni quella di tanti, la Graziella !
Santa Graziella martire di tanto uso, anche sperequato.
Con lei andavamo dappertutto, era un’antesignana dell’odierna mountain, infatti ci si andavva lungo il Savena, (anche dentro ,…. delle volte !) oppure su per via Varthema per scendere dritto per via Marchetti, a rotta di collo !
Da più grande pensavo che fosse un pò un mondo passato e basta.
Non poteva più essere che negli assolati pomeriggi d’estate, alle 2, alle 3 del pomeriggio si sentisse, per tutto il quartiere, solo, esclusivamente, incombente, forse un pò inquietante, il “rombo” dei pattini che correvano sulla zigrinatura delle mattonelle usate per pavimentare i lunghi portici di via Dagnini, unito a quello dello scatto libero delle bici che andando e riandando, nell’ombra fresca della velocità del mezzo, sotto al portico, si lanciavano l’eco in attesa che facesse meno caldo, per andare a “girare” e nel frattempo si piluccava un cof e magari uno split.
Il cof era il famoso ghiacciolo, mentre lo split era un fior di latte, montato sempre sul bastoncino, guarnito con una copertura all’albicocca che bisognava sciogliere, che i più forti mordevano anche subito.
Anche oggi i ragazzini hanno il diritto di vivere il territorio come abbiamo fatto noi, senza partecipare soltanto all’allampanata realtà virtuale.
Le auto non sono noi, non sono le nostre gambe, servono ma per il resto del tempo ci contengono, ovvero non ci fanno muovere.
M.L.King disse d’avere un sogno.
Non credo si sia realizzato del tutto ma penso che molto di quello che si era sognato si sia concretizzato.
Nel mio piccolo, molto più modestamente e molto più modesto, anch’io ho un sogno e credo che se si è quasi avverato il suo che era molto più grande e molto più importante del mio, a maggior ragione il mio s’avvererà, dato poi che in altri posti si è già realizzato.
Non si può tornare a quella realtà sopra descritta ma sogno d’avere sempre una pista ciclabile liscia e dritta, a fianco delle strade dove i mezzi a motore possono camminare ad una velocità superiore ai 30 km/h.
Così si potrà tornare a sentire, abbastanza spesso, lo scatto libero fare le “fusa” !!