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Firenze in bicicletta

CICLOPOLIS” è il titolo della nuova collana di Ediciclo pensata per raccontare le Città in bicicletta.
Il primo volume è dedicato al capoluogo toscano, ha per titolo “Firenze in quattro stagioni” ed è stato scritto da Paola Zannoner .

La presentazione del libro avverrà domani alle ore 18.00 presso la libreria Feltrinelli di via de’ Cerretani.
Ospite d’onore della serata sarà l’astrofisica Margherita Hack che è appassionata di bicicletta quasi quanto di stelle.

Per gentile concessione dell’Editore anticipiamo qui un estratto dal volume di cui vediamo la copertina nell’immagine accanto.

L’estate è anche la stagione in cui ho imparato ad andare in bicicletta. Avevo otto anni, mi pare, ed eravamo sul lungomare di Fano. Mio padre mi sorreggeva tenendo la mano sul sellino e mi ha incitato: «Su, coraggio, vai!». «Ma tu non mi lasciare». «Non ti lascio, vai, pedala!». Ho pedalato sempre più veloce e un po’ ubriaca di vento. Solo quando mi è caduto l’occhio sulla mia ombra solitaria, mi sono accorta che lui non c’era più, non mi sosteneva. Ma ormai andavo, e sapevo. Credo che s’impari così, con la spinta alla libertà che qualcuno t’imprime, ma anche con un po’ di tradimento frutto d’amore e d’orgoglio per averti restituito a te stesso, alla tua dimensione d’indipendenza, alla coscienza della tua forza. Mio padre voleva dei figli liberi, autonomi, viaggiatori, responsabili di sé. Era un uomo che cercava la velocità nella potenza dei motori: le grosse auto, i motoscafi rombanti. Io, sua figlia, amo la velocità cautamente silenziosa: mi piace la bicicletta, la sua asciuttezza di forme, il leggero mormorio del telaio, il sibilo delle ruote, la totale dipendenza dal ritmo della pedalata e dalla forza muscolare. Per anni ho desiderato una bici molto modaiola dal nome vagamente dannunziano di Atala. Ma non possiedo un’Atala, tutt’altro. Da sette anni viaggio su una bici che ha un doppio nome, il californiano Sunrise e il montparnassiano Rendez-vous che, insieme, comporrebbero un Appuntamento all’alba da Sergio Leone, se non che quella scritta sul mio destriero d’acciaio nero è in rosa confetto per nulla western, più Colazione da Tiffany che cavalcata solitaria. Del resto, questa è una city bike, come mi disse il venditore di Prato, quasi provincia americana alle porte di Firenze.

Ho comprato la mia bici quando ho deciso di trasferirmi in centro, al contrario di molti cittadini che …

fuggivano per la mancanza di ascensori e supermercati, per la scomodità del parcheggio, per la confusione dei troppi bar e locali. Mi sono convinta, negli anni, che la cosiddetta comodità raramente si accompagna alla bellezza. Il primo pensiero (tutto femminile) è nei confronti delle donne che si tagliano i capelli perché sono «più comodi » e non perché un’acconciatura corta valorizza il loro viso. Quando si comincia a dire «è più comodo », ci sia avvia ad abdicare all’innata ricerca solo umana dello splendore. La bellezza è faticosa, impegnativa, ti mette in discussione e, nel caso dell’arte, ti pone di fronte alla sua intrinseca fragilità. Ti costringe a un atteggiamento protettivo e un po’ devozionale. Non puoi usare un mezzo da sbarco per entrare in un palazzo rinascimentale; e devi rinunciare all’antenna parabolica sul terrazzo o sul tetto; devi fare tutto il contrario di quello che oggi richiede la vita affannosa che conduciamo, quando in poche ore dobbiamo mettere insieme la spesa, gli impegni extrascolastici dei figli, la tosatura del cane, magari accompagnando una madre ultrasettantenne alla visita ortopedica. E allora, è più comodo l’appartamento in periferia, con il parcheggio e l’ascensore, e meglio ancora la villetta a schiera, dove arrivi quasi in soggiorno con l’auto, e la sera, sta’ sicuro, non c’è la baldoria della gente che esce dai teatri e dai locali, e finalmente, sì finalmente!, puoi vederti in santa pace la partita tra il pianeta Terra e la Stella Vega, grazie alla nuovissima antenna intergalattica! Dato che faccio un mestiere che non ha orari fissi, non ho un ufficio e tanto meno un capo, e da alcuni anni non devo accompagnare più la prole in giro per palestre o scuole di musica, posso permettermi di vivere proprio nel cuore della città, a poche centinaia di metri dal Duomo e altrettanto da Palazzo Vecchio. La mia strada si chiama Borgo, perché così si chiamano a Firenze le vie fuori dalla prima cinta muraria che racchiudeva il nucleo della città medievale: borgo e cioè nucleo di case-torri, la più importante delle quali, quella della famiglia Albizi, ha dato il nome all’intera strada. Un tempo neanche molto remoto tutte queste strettissime vie dalle grigie pietre arenarie erano invase dalle automobili e dai pullman turistici. È impressionante, oggi, vedere le foto di piazza della Signoria o di Santa Croce come grandi e tetri parcheggi. Il fatto che faccia impressione è senz’altro il segnale che sono cambiate le abitudini, è migliorata la sensibilità verso i monumenti e la percezione della città. E sono aumentati moltissimo i ciclisti, che fino a vent’anni fa erano uno sparuto drappello di coraggiosi che affrontavano il traffico dei viali e fondavano circoli di tipo carbonaro in cui si demonizzava l’automobile e l’ancor più odiato motociclo, il cugino arricchito e borioso. Oggi, in bici vanno in tanti e qualche pista ciclabile è stata realizzata, per esempio nella cintura dei viali, da piazza dei Cavalleggeri fino alla Fortezza (poi hic sunt leones); lungo le rive dell’Arno, dove si viaggia un po’ sul marciapiede, un po’ sulla carreggiata e le piste sono un po’ segnalate e talvolta no, ma a volte si esagera con una bella mano di rosso acceso sul marciapiede, in modo che la pista ciclabile possano vederla anche i venusiani.

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