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Grazielle

Questo racconto di Vittorio Marletto è una “istigazione” alla narrazione.  Fa venir voglia di  rievocare i nostri ricordi in bicicletta. La sua collocazione naturale in questo sito è Bici amarcord, l’apposita sezione che abbiamo dedicato alle testimonianze, inaugurata con uno scritto di Enzo Biagi e arricchitosi nel tempo. Anche questo fa parte di quel lavoro di “restauro conservativo” che ilikebike tenta di fare ogni giorno con un unico scopo:  reinventare la bicicletta.
Ma l’istigazione di Vittorio è duplice e riguarda anche la madre di tutte le biciclette dal nome di donna: la Graziella. Ne parleremo presto.
Ma adesso spazio a “Grazielle”

***

Sono un ciclista della domenica. Ho contratto il vizio del pedale a Roma, da bambino (tra l’altro nella forma più perniciosa, quella bighellona e non agonistica). La “pusher”, nel senso che spingeva, fu mia madre, donna anomala dedita più al pingpong e alla pallacanestro che all’arte culinaria, per la quale è in effetti del tutto negata. Fu lei a comprarci (a me e a mio fratello Gerardo, una in due) la prima bicicletta, la rivoluzionaria Graziella, modello pieghevole con le ruote del venti che ora, quarant’anni dopo, sta tornando di moda tra i liceali più trendy di Bologna, al punto che se ne tiri fuori una dalla cantina e la leghi a un palo te la rubano in mezz’ora.

Per avere una bicicletta ciascuno io e Gerardo dovemmo attendere l’arrivo di un ricco zio mediorientale che ci condusse al negozio Bianchi di via Lorenzo il Magnifico e ci fece scegliere: io presi una ventisei e lui una ventidue, altro oggetto ormai introvabile. Tutte queste biciclette ci furono prima o poi rubate e quindi fin da piccolo mi toccava avventurarmi in mezzo al traffico romano con altre bici del tutto inadatte, rimediate, spesso prive di freni, e il percorso più amato era quello che portava da casa fino agli altissimi pini a ombrello di villa Borghese, a Porta Pinciana, dove comincia via Veneto.

Questa porta, adornata negli anni settanta con un inviluppo di spago e plastica dallo strano artista del paesaggio che si fa chiamare Christo, mi ricorda invariabilmente la miglior lezione di storia dell’arte che ebbi da un professore del liceo, l’architetto Libera. Il nostro, pur essendo nei pressi della stazione Termini, era un liceo marginale, popolato di soli maschi periferici, lettori del Corriere dello Sport, in perenne stato di erezione frustrata, del tutto avulsi dalla contemplazione altro che di muliebri sederi e completamente indifferenti alla meravigliosa città in cui abitavano.

Il professor Libera ci chiese “Quanti passaggi ha Porta Pinciana?” e nessuno, dico nessuno di trenta che eravamo, riuscì a figurarsela nel ricordo talmente bene da dare la risposta esatta (i passaggi sono ben sette e questo numero non l’ho più dimenticato). Ci dimostrò così che guardavamo senza vedere e che il mondo che ci stava intorno, per cominciare a capirlo, bisognava almeno cominciare a vederlo. Gli sarò sempre grato per quella lezione.

La passione per il pedale bighellone era fomentata anche dal mio unico vero amico d’infanzia, Mauro, un tipo secco ma muscoloso che su qualunque catorcio andava due volte più forte di me. Da lui ho imparato per esempio a riparare le forature con l’ausilio di una bacinella piena d’acqua, dove il buco nella camera d’aria si scopriva subito per via delle bollicine, e a usare i Tippettop, come li chiamava lui col suo bell’accento romanesco, col loro corredo di grattugina e mastice nella scatoletta verde.

A quell’epoca i quindicenni come noi portavano maglioni a collo alto e certi pantaloni stretti a zampa larga, avevamo tutti delle zazzere belle gonfie e chi come me portava gli occhiali non si vergognava affatto di esibire delle enormi montature di tartaruga. Con questi abbigliamenti e una bisaccia militare a tracolla ci facemmo i giri più belli nella primavera del 1973, quando la crisi petrolifera indusse il governo a decretare il blocco domenicale della circolazione a motore. Era un blocco totale che includeva anche le strade extraurbane e che stranamente faceva alla gente di allora molto meno effetto di quelli del tutto parziali di oggi, perché a quel tempo ci si muoveva molto di più a piedi e in autobus, non avevamo mica tutte le macchine e i motorini di adesso.

Così in una di quelle silenziose domeniche partimmo da Roma alla volta dei Colli Albani, biciclette pesanti e senza cambio, che alla prima salitona sull’Appia ero già uno straccio. In qualche maniera si riuscì a raggiungere le vette e poi, dopo aver consumato il panino e le arance custoditi nelle bisacce, vennero le discese, fatte follemente, senza mai toccare i freni, ciecamente fiduciosi nell’assenza delle auto dalle strade tagliate in mezzo ai boschi.

Un’altra volta, sempre insieme a Mauro, compimmo quella che ancora mi sembra un’impresa, la pedalata di cinquanta chilometri da Roma fino a Tor San Lorenzo, il posto dove lui aveva la casa al mare (la casa in realtà distava chilometri dal mare ma era decisamente marittima, coi pitosfori, gli oleandri e i pini nel giardino).

Io da Mauro e dalle sue case ho imparato moltissimo, per esempio fu lui, proprio in una stradaccia isolata e piena di buche di Tor San Lorenzo, a darmi la prima lezione di guida, con la cinquecento blu del padre. Fu suo padre invece che mi fece assaggiare da bambino il grigio e forte pane casereccio, assoluta novità per me che ero stato tirato su solo a rosette, dolci e croccanti quando sono appena fatte, ma gommose e immangiabili in capo a poche ore. Fu sulla loro collezione di Flash Gordon che mi appassionai alla fantascienza e sempre sulla loro (del papà) collezione di Playboy – edizione originale americana – che scoprii di avere un interesse esclusivo ed ossessivo per le donne, specie se nude.

Quando ce lo permisero i genitori e la maggiore età cominciammo a organizzare dei viaggi in bicicletta, con la tenda legata al telaio, il sacco a pelo sul portapacchi e uno scatolone di cartone fissato sotto il manubrio per la spesa e il resto del carico. Il più bello fu il giro del lago di Garda. Andammo fino a Verona con la 127 dello zio di Mauro, le bici sdraiate e legate una sull’altra sul portapacchi (non avevano ancora inventato i geniali portabici di adesso). Alla fine del giro però mi beccai una diarrea che mi sfinì e così chiesi al contadino che ci aveva lasciato montare la tenda nel suo prato di restare in casa sua mentre Mauro tornava a Verona da solo a prendere la macchina. Negli anni settanta nessuno si faceva problemi a far entrare in casa un ragazzino sconosciuto, specie se aveva la faccia a modino come l’avevo io, anzi visto che mi sentivo poco bene mi fecero sdraiare sul divano e mi diedero anche un tè. Poi il padrone di casa andò nei campi e mi lasciò in compagnia della moglie, una donna alta e segaligna che mi raccontò senza grandi giri di parole di avere messo al mondo quattordici figli perché lei “si sentiva bene solo quand’era incinta” e che l’ultimo l’aveva quasi partorito nel campo in cui era a trebbiare.

Fu Mauro a farmi regalare da una cooperativa di amici, in cui mia madre era socia maggioritaria, la mia prima bicicletta da corsa, col cambio a cinque rapporti dietro e due davanti, per la laurea. Era una Lazzaretti, presa a Piazza Fiume, telaio azzurro e manubrio giallo. Ce l’ho ancora, è in cantina ad arrugginirsi. Dopo molto tempo ne ho comprate altre due, una ce l’ho in città e una in montagna, le ho usate per un po’ ma ora non riesco più a girare in bici se non per le piccole commissioni di tutti i giorni. Ho un dolore, che mi prende appena salgo in sella, una fitta acuta ad una spalla. È un segnale, anche se non capisco di che cosa. Così il mese scorso ho comprato una Graziella usata, per mio figlio, anzi no per me, perché forse uno che comincia in un modo non deve cambiare.


Vittorio Marletto, 2005

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  1. Anch’io ho un lungo passato da ciclista, a Fregene andavo a scuola in bicicletta, elementari e medie. Percorrevo tutte le mattine due km sotto la pineta monumentale per andare a scuola, baciato anche d’inverno dal sole mediterraneo di Fregene. Chi mai avrebbe pensato che sarei finito nelle brume padane…

    Anche d’estate percorrevo Fregene in bici, le mattina andavo al mare, il pomeriggio giravo in lungo e in largo, in cerca di lucertole perlopiu’.

    Ecco, la bici per me era contatto con la natura, spensieratezza, vita all’aria aperta.

    Ho avuto tre quattro bici in tutto, tutte rosse con la canna e le ultime con il cambio.

    Poi l’adolescenza, a 13 anni mi ero innamorato perdutamente di una ragazza molto carina, Silvana, anche lei con una bicicletta rossa (che ricordo ancora nei dettagli), giravamo per le stradine cercando di incontrarci, cosa che avveniva molte volte al giorno, incrociarci in bicicletta era il massimo dell’emozione, ma non ho mai avuto il coraggio di fermarla e di fare la sua conoscenza.

    Infine, a Modena ho comprato la mia ultima, una di quelle classiche da uomo, nera coi freni a bacchetta. Anni fa la usavo molto, da alcuni anni e’ in cantina.

    Enrico (un amico di Vittorio)

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