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Se la scuola avesse le ruote

Chi non lo ha mai fatto il gioco del “se tornassi a nascere farei o mi piacerebbe”.
Ebbene tra le decine di cose che prenoterei ci sarebbe sicuramente un Prof. come Emilio Rigatti. Penna meravigliosa e uomo capace di utilizzare la bicicletta, per parlare di storia, geografia e vita.

Ma soprattutto Insegnante fuori dall’ordinario e quindi in grado di insegnare lo straordinario.

E cosa serve a un discepolo oggi (e forse all’intero Paese) se non la capacità di ambire allo straordinario? Meglio: allo straordinario distinguendolo dall’impossibile.

Quello qui sotto è uno stralcio tratto dall’ultimo  libro di Emilio:  Se la scuola avesse le ruote edito da Ediciclo .
E’ un po’ lungo ma merita.
Buona lettura e buon fine settimana!

Sotto sette temporali

Ciò che spaventa gli uomini non è la realtà, ma
l’idea che se ne fanno.
Epitteto
L’anno dopo, l’ultimo e il terzo con la classe della formica atomica, me ne toccò un’altra, di avventura. Un episodio che, visto da fuori, può sembrare vicino al limite del buon senso; invece, così come successe a noi, ebbe la sintassi perfetta che è propria delle cose che riescono bene perché si è sicuri di quello che si sta facendo, una volta che il destino ci ha cambiato le carte in tavola senza preavviso.
Le circostanze, il quadro generale, insomma, giocò una parte di non poco conto, ma è certo che i tre protagonisti se la cavarono bene. E quei tre erano la Martina, Davide Jacumin e io. Andrebbe aggiunto che ci fu un nume che aleggiò violaceo su tutta la storia – che dura peraltro un solo giorno – e se volessimo personificarlo lo chiamerei “il Maltempo” con la maiuscola. Ma ormai lo conoscevamo bene, l’angelo oscuro dalle ali tempestose.

Il Maltempo era previsto da giorni, ma non con quella forza. S’era scatenato nella notte con sarabande di tuoni e fulmini che mi facevano svegliare di soprassalto e in angoscia per la gita del giorno successivo. Al mattino, a partire dalle sette, mi raggiunsero a raffica gli sms dei miei alunni che mi avvisavano che non si sarebbero presentati alla stazione di Udine, per prendere il treno per Tarvisio. I notiziari parlavano di trombe d’aria e addirittura di un morto a Manzano. Ma non tutti mi avevano dato la disdetta.
Alcuni mancavano e, anche se immaginavo che nessuno sarebbe venuto, non ne avevo la certezza. Volevo avvisare i mancanti, ma mi accorsi che non avevo, o non trovavo, l’elenco con i loro numeri. E se qualche eroico e incosciente fanciullo si fosse presentato all’appuntamento, nonostante
tutto quello che era successo nella notte? Ricevetti una chiamata della Martina che fu per me come una doccia fredda: si trovava già in strada assieme a Davide e, come mi disse, c’era acqua da tutte le parti. «Speriamo di farcela, prof, pare di essere in motoscafo».
Mia moglie dovette alzarsi e accompagnarmi. Nei pressi di Palmanova le strade si stavano inondando e dopo Percoto molte automobili erano in panne e semisommerse. Ci toccava procedere a passo d’uomo in una versione automobilistica dell’evangelica camminata sulle acque. Ci andò dritta e arrivammo a Udine, dove trovammo Martina e Davide alla stazione, la prima con la sua sventagliata di denti in faccia ai temporali, il secondo un po’ più perplesso. Meno di me, certamente, comunque perplesso.
Mario Clauderotti, un amico ferroviere che aveva messo la mia classe tra i beneficiari di una gita gratuita offerta non so se dalle ffss o dall’azienda di soggiorno di Tarvisio, si consultò telefonicamente con i colleghi in montagna.
«Sì, a Tarvisio piove, ma meno di qua» ci disse, «io vi consiglio di andare e se si mette male tornate indietro col primo treno».
«Dai, prof, andiamo» insistevano i miei alunni, «alla peggio ci godiamo il viaggio leggendo, ci mangiamo una pizza e poi torniamo». Be’, che fare? Salimmo sul treno con le nostre bici – eravamo gli unici partecipanti a quell’escursione – e a Tarvisio trovammo una guida che ci accompagnò all’Orrido dello Slizza. Era freddo e piovigginava. Lasciammo le bici all’imbocco del sentiero attrezzato e facemmo tutto il giro, visitando le forre e le gole del torrente Slizza. Ormai ci eravamo dimenticati della pioggia e – come chi ha paura di lanciarsi nelle danze ma poi, una volta vinta la timidezza, si fa ubriacare dalla musica – ballammo col Maltempo. Anzi, finita l’escursione, inforcammo le bici e pedalammo fino a Camporosso, c’infrat tammo in una pizzeria e mangiammo di gusto. Prendemmo il primo treno e, giunti a Udine, pioveva e tuonava ancora. Bene, nonostante tutto l’escursione era fatta. «Ragazzi, tra un po’ c’è il locale per Cervignano. Telefonate ai vostri genitori che vi vengano a prendere in stazione alle sei e mezzo». Lessi il disappunto sui loro volti. Il sorriso di Martina era sparito dietro una nuvola di malumore. «Ma, prof, perché non torniamo a casa in bici?».
Scossa. In bici con questo tempo?
«Ma cosa dici? Ma hai visto che buriana?».
Occhioni imploranti. Controscossa. E perché no? Mi risposi con la stessa domanda che mi ero posto: “Perché no?”.

«Perché ci sono la Roggia di Palma e quella di Santa Maria che sono esondate e ci toccherebbe pedalare con mezzo metro d’acqua. Poi tuona e i ferrovieri mi hanno detto che dopo Merlana la strada è completamente sott’acqua». Anche Davide, un alunno molto bravo ma ancora preda di facili pianti infantili, aveva tirato fuori una grinta da Rambo. Da non credere. Continuava a tuonare.
«Dai, prof, abbiamo gli impermeabili. E poi, se la strada è sott’acqua… insomma… che pericolo c’è, prof? Ci divertiremo…».
E che? Non lo sapevo che ci saremmo divertiti? Ma, ma, ma… Opposi una raffica di ma che non convinsero i due e neanche me stesso. Intuivano che il primo a non crederci ero io. Certo, a organizzare una gita a bella posta per attraversare strade sommerse era da pazzi, ma noi ci eravamo finiti in mezzo nostro malgrado. Come i marinai nella tempesta: non se la cercano, ma se la trovano sanno come fare. E adesso che eravamo inebriati dai giri di valzer della bassa pressione, perché smettere di ballare, di ballare con Pascal? «Io non mi prendo la responsabilità. Se i vostri genitori vi danno il permesso, andiamo. Altrimenti non se ne parla nemmeno». Ponzio Pilato? Un dilettante, in confronto. Martina dispiegò la scala quaranta del suo sorriso e Davide, che di solito si stropicciava gli occhi in lacrime, si sfregò soddisfatto i palmi come
chi l’ha fatta grossa e gli è andata pure bene. Avevamo studiato anche retorica, quell’anno, e i due si dimostrarono ottimi allievi. In cinque minuti avevamo i lasciapassare per l’inondazione. I miei due allievi erano entusiasti e, devo dire purtroppo, lo ero anch’io, nonostante la maturità a cui avrei dovuto andare soggetto da una ventina d’anni almeno. O erano trenta? O trentacinque? A Lauzacco cominciarono i campi allagati e interi tratti di strada sparivano sotto la superficie liquida dal colore fangoso. Gli alberi spuntavano dall’acqua e stormi di gabbiani, in cerca di cibo, volteggiavano sulla terra che riaffiorava. Un’esperienza come la nostra non era contemplata nel libro di geografia: l’acqua visualizzava come un liquido di contrasto i livelli delle nostre campagne, spiegava meglio delle mie parole la scelta di luoghi elevati per costruirvi chiese e strade. Non tutte, però. Dopo Merlana la campestre scompariva sotto l’esondazione delle rogge e si prospettava un lungo tratto da pedalare con l’acqua ai mozzi.
«Ragazzi, seguitemi a dieci metri di distanza, piano, e ovviamente se finisco in una buca non fate il mio percorso ». Le acacie sommerse evidenziavano con lunghi baffi di corrente attorno ai tronchi l’andamento del deflusso delle acque.
Mi portasse il diavolo, se avevo mai fatto un pezzo così lungo di strada come un motoscafo. I due acquanauti mi seguivano precisi e sicuri sulla scia della ruota.
Non trovammo buche o fossi ma, in compenso, mi parve di sentire che la mia bici avesse un po’ di sbudinamento laterale, come se la ruota posteriore perdesse pressione. Paranoia o avrò bucato? Foratura, mi toccò concludere
amaramente. A un centinaio di metri davanti a noi la strada, per una gobba del terreno, spuntava dal flusso fangoso
per qualche metro. Raggiungemmo l’isolotto e riparai la foratura mentre Martina mi fotografava. Quell’immagine è stata poi utilizzata dai giornali in occasione di articoli sui miei libri ed è finita sul web. L’ignota reporter era proprio lei, Martina, col sorriso che scaccia i temporali. Poi, come dopo il diluvio, il Friuli cominciò a riemergere e gli ultimi chilometri furono all’asciutto. La gente lavorava per vuotare i garage e per far ripartire le automobili paralizzate.
A casa mia arrivammo bagnati – le cerate non riparano dal sudore –, infreddoliti e francamente molto soddisfatti, forse anche felici. Spedii i due a farsi la doccia e prestai loro dei vestiti di mio figlio. Graziano Jacumin e Marco Angelini vennero a prendere i ragazzi dopo cena.
«Com’è andata?».
Lasciai rispondere Martina, la miglior propagandista che avessi a tiro. Poi conclusi io: «Inossidabili. Secondo me, la Ferrara-Aquileia questi la fanno
come mangiarsi un cioccolatino». Non restava che provare.
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